mercoledì 9 agosto 2017

La Fata della Brughiera (di Enea Grosso)




Le fate dei boschi della Brughiera tra Mosso e Trivero, come tutte le fate del mondo non provavano forti emozioni come gli umani. Perciò quando un uomo o una donna violavano – anche inconsapevolmente – certe zone vietate del bosco o trasgredivano alle regole della Natura e non rispettavano gli alberi, le fate li punivano prontamente e in vari modi, a seconda della gravità del fatto. 

Fiori nei boschi accanto alla Conca dei Rododendri a Trivero (Bi)

Non che di solito facessero loro davvero del male; però li spaventavano a morte e li abbandonavano in stato confusionale ai margini di una radura se erano fate miti, nel cuore del bosco se erano più agguerrite e cattivelle. Spesso giocavano con la loro memoria confondendo i loro ricordi e li rimandavano in paese in uno stato tale di euforia da creare scandalo e imbarazzo.  Come capitò ad esempio al giovane Franco, che, dopo aver strappato con noncuranza alcuni ranuncoli per noia – le fate cercavano di  tollerare chi ne raccoglieva per farne un mazzolino  con buone intenzioni – fu immediatamente cosparso di vino di felce e lasciato ubriaco e confuso (e anche molto felice, bisogna dirlo) ai piedi  di un grande faggio lungo il sentiero principale. Quando si svegliò  era totalmente euforico, come se si fosse scolato dieci  litri di Barbera e due di Grignolino, e tornò in paese cantando a squarciagola che era innamorato della ragazza più bella della valle e che sarebbe stata sua. Così, urlando e saltellando piombò nel bel mezzo di un banchetto nuziale in corso alla locanda del Castagneto; e alla vista della sposa nel suo elegante abito nero  di pizzo, si slanciò su di lei e la baciò appassionatamente, provocandone lo svenimento ( il danno minore) e scatenando le ire  dello sposo e di tutti gli invitati, comprese le donne.  Guai se non fosse intervenuto il Lindo, il saggio nonno dello sposo, che avendo riconosciuto lo zampino delle creature dei boschi salvò il malcapitato dall’ospedale.

Al Castagneto alla Brughiera
Di fatti del genere ne erano già capitati, anni addietro. A volte succedeva che la persona colpita dall’incantesimo si smarrisse per giorni e giorni, destando grande preoccupazione nei familiari. Il pericolo era che, camminando nel buio in stato confusionale,  scivolasse lungo un dirupo o cadesse in una luvera a far compagnia ai disgraziati lupi lì  intrappolati.
Quando capitavano queste cose, per un po’ tutti si ricordavano di avere il massimo rispetto per qualsivoglia forma di vita dei boschi: nessuno più strappava fili d’erba e fiori con superficialità, nessuno incideva le cortecce; e i boscaioli si inchinavano agli alberi e li ringraziavano prima di procedere al taglio. Per un po’ di mesi – anche per un anno e mezzo – tutto andava bene; ma poi si  ritornava alle vecchie abitudini e tutto ricominciava da capo. C’era anche chi lo faceva apposta per provocare le bellissime fate dei boschi, così restie a farsi vedere  dagli umani, e, se lo facevano, di solito era solo per meglio sbattere loro in faccia tutto il loro disprezzo.

Lungo il sentiero a due passi dal Santuario della Brughiera

Accadde che un giorno un anziano viandante proveniente da Vercelli, in preda alla tristezza essendo rimasto vedovo da poco, piangendo strappasse alcune margherite  accanto alla pietra su sui era seduto.  Mentre ne strappava i petali uno ad uno ricordando il giorno in cui aveva conosciuto sua moglie cinquant’anni prima, nei pressi si trovava la giovane fata Jamil. Era appollaiata tra i rami di un castagno alle sue spalle. Secondo le regole del bosco avrebbe dovuto punirlo immediatamente. Era pronta con la sua bacchetta alzata sopra alla testa del malcapitato; ma qualcosa la fermò. Una voce sconosciuta dentro di lei le suggerì che no, non era giusto; che prima di decidere se colpirlo o meno doveva sentirne il cuore.


Così Jamil ascoltò le sue parole spezzate tra i singhiozzi. Per sentirle meglio chinò la sua piccola testa invisibile, ma un  battito disperato la fece rimbalzare all’indietro. Aggrappandosi al suo mantello nero, appoggiò di nuovo l’orecchio sul suo petto, e che ondata  di dolore, amore, affetto la investì in pieno viso scompigliandole i capelli biondi. Le emozioni si muovevano tutte insieme simili ad una  treccia adagiata a spirale attorno ad un centro calmo in cui brillava qualcosa: un viso tondo  e sorridente di donna che a tratti aveva  i capelli candidi come la neve raccolti a cipolla -  come usavano le donne sposate del villaggio -   e poi dopo un attimo li aveva castani e sciolti come una ragazza, e le lacrime dell’uomo li bagnavano e li accarezzavano. “La mia cara Lidia” ripeteva a mezza voce. E ad un certo punto si chinò a raccogliere i petali delle margherite che aveva strappato e li posò con grande cura sulla pietra formando un grande cerchio, una margherita gigante. “Piccole margherite…Grazie, Lidia. Ovunque ci sia un petalo di margherita, io so che sei tu a mandarmelo per darmi conforto. Ora però vola libera tra le margherite del Cielo”.



Jamil sentì qualcosa che le infastidiva la gola. Deglutì. Era scossa. Le era persino scivolata a terra la bacchetta magica, perché si era chinata  per accarezzare il capo del vecchio. Mentre la sua piccola mano invisibile sfiorava i suoi radi capelli bianchi, sulle labbra dell’uomo spuntò un sorriso; mentre su quelle di Jamil era svicolata una lacrima, poi due, poi tre, seguite da altre compagne.
“Ma …  cosa mi succede, cosa sono queste gocce? Non può essere un pianto … solo gli uomini piangono! Non ho mai visto piangere una fata!”. Le fate provavano solo emozioni molto blande. Erano distaccate dalle vicende umane. Non che fossero superficiali: erano fatte così. Un modo d’essere molto utile per tenere a bada la rozza popolazione della Terra, tutto sommato.
Più cercava di cacciare indietro le lacrime, più le inondavano i grandi occhi grigi con maggior forza, come un torrentello birichino. Ne scesero così tante che bagnarono il muschio, scivolarono lungo le felci e caddero nel rivolo lì accanto, che buttandosi nel torrente poco lontano le trasportò a valle, fino al castelli di Buronzo e Rovasenda e fino alle risaie del vercellese, attraversando mezza baraggia.



Jamil non se ne avvide, per fortuna, o avrebbe chiesto alle radici del castagno di strangolarla all’istante. Soffiò nelle narici del vecchio una polvere magica – cosa che avrebbe dovuto fare subito  per ipnotizzarlo -  e lo spinse dolcemente giù lungo il sentiero che conduce alla frazione Sella, fino ad un cancello imponente davanti ad una casa signorile con un grande giardino. Lasciò che si accasciasse lì davanti. Ci fu un latrare di cani seguito da alcune voci. Prima di risalire verso il sentiero, si girò ancora. “Mamma, assomiglia tanto al nonno che è volato via … chissà chi è!”.  La giovane fata sapeva che il vecchio era in buone mani e proseguì verso il bosco. Ma appena si fu allontanata fu sopraffatta dalla vergogna. Come aveva potuto! Cosa le sarebbe successo! Doveva sparire! E di nuovo sentì quel terribile groppo alla gola e ne fu spaventata: guai, guai se qualcuno l’avesse vista! Sarebbe stata radiata dal bosco,  gli gnomi l’avrebbero derisa per l’eternità, le fate l’avrebbero schernita e le avrebbero tolto il saluto.  Disperata e non sapendo cosa fare, attraversò il bosco, andò oltre il ponticello di legno e il Villaggio dei Tessitori e si rifugiò tra i rovi di una conca della montagna dove non passava mai nessuno, disabitata, dimenticata persino dai folletti che si infilavano dappertutto. 

Il sentiero nel bosco dalla Brughiera alla Conca dei Rododendri

 Con la gola e il cuore gonfi al punto da scoppiare, Jamil si gettò al riparo dei cespugli incolti e spinosi e lasciò che quel terribile peso si sciogliesse e la liberasse. Poi cadde addormentata, esausta. Rimase lì tutta la notte.




Nel frattempo di felce in felce, di pietra in pietra, fino ai sottili steli di riso delle campagne dorate si era sparsa la voce che miste all’acqua di montagna c’erano migliaia di lacrime di fata: un evento rarissimo e atteso da migliaia di anni, un segno dei tempi che stavano radicalmente cambiando, un segno di fiducia da parte della Fata Suprema della  Natura  nei confronti degli uomini e delle donne, ormai  pronti ad un’enorme evoluzione delle loro coscienze. Era segno che le creature del bosco erano disposte a collaborare con loro – non più rozzi incivili da comandare a bacchetta (magica!) e da punire senza tregua. Era tempo di una riconciliazione. Si trattava una grande possibilità che la  Fata Suprema concedeva loro, ergendoli da sciocchi burattini ad esseri consapevoli e responsabili.

Jamil non sapeva  d’aver contribuito ad un passo tanto importante, lasciandosi trasportare dalla compassione. Però, quando si svegliò – era quasi l’alba .-  non poté credere ai suoi occhi: dove si trovava? Aveva camminato nel sonno? Qualcuno l’aveva rapita e trasportata nel paradiso delle  fate? Il versante della montagna era ricoperto da centinaia di cespugli di giovani rododendri che crescevano a vista d’occhio zampillando dalla terra come sorgenti colorate.  La fata era felice.  Sentiva d’ essere stata l’inconsapevole causa scatenante di un processo sepolto  da secoli nelle segrete della Terra, in attesa che qualcuno ne girasse la chiave.




La Conca dei Rododendri – magnifica nel mese di maggio – esiste ancora oggi, come anche la fonte che per prima accolse le magiche lacrime di Jamil, ora una fontana nel prato della Brughiera all’ombra dell’ippocastano, dove i viandanti sono sempre ben accolti purché in cuor loro s’inchinino alla bellezza del luogo,  di ogni sua creatura e di ogni filo d’erba. 

Prato alla Brughiera


Testo e foto di Enea Grosso


P.S.: Il Santuario della Brughiera e la Conca dei Rododendri sono a Trivero (Biella), nella zona dell'Oasi Zegna. 

2 commenti:

  1. Bello fata fatina, un racconto magico!

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  2. Ho letto x caso,un racconto che mi ha trasportato con la mente nel mondo della natura e dei sentimenti.Bello.Mi piace

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