Il grande ciliegio dei nonni faceva tanta ombra. Era alto, non so quanti metri, ed aveva un fusto enorme. Io ero piccina, certo, ma non sono mai riuscita ad abbracciarlo tutto neanche crescendo. Si trovava nel recinto delle galline e mi toccava fare attenzione a dove mettevo i piedi per via degli escrementi. Accanto c’era l’asparagiaia; li vedo ancora spuntare qua e là quei gambetti, ma quando le ciliegie si facevano la guancetta rosa, loro dovevano essere a fine produzione, perché su quel terreno ci saltavo come una cavalletta. Sul lato opposto c’era la legnaia di nonno e non distante, in mattoni e coppi rossi, c’era una casupola bassa: il pollaio, dove io, la friciulin di nonna, andava a raccogliere le uova appena deposte, tiepide. Il segnale di allerta era il coo, co co dè, ripetuto più volte.
Sotto al grande ciliegio non cresceva l’erba per l’ombra fitta, ma anche per quei polli che beccavano ogni anima verde che spuntasse.
Il tempo delle ciliegie arrivava con i primi caldi e lo vedo ancora nonno che va a prendere la scala in legno scuro, con i pioli storti, che a me sembrava vecchissima e poco sicura. La issava al fusto e a salire sull’albero era mamma, non prima di aver ammonito nonno: lui, alla sua età, non doveva più provarci, poteva cadere e farsi male. Era un teatrino che si ripeteva ogni volta, ogni anno, con sempre maggior ragione. Peccato che oggi, con la stessa età di nonno all’epoca, mia madre si ostini a salire sulle scale, senza sentir ragione. E allora io, da terra, alzavo lo sguardo a rintracciare la mia mamma spericolata, abbarbicata fra i rami, con la cesta in vimini appesa al ramo più vicino a lei, tramite un uncino in ferro a forma di “esse”. Ogni tanto lasciava cadere qualche ciliegia apposta per me, ancorata al proprio ciuffo di foglie per attutirne la caduta. Il massimo del divertimento era staccare i frutti doppi senza separarli, mantenendoli uniti per i piccioli, la parte che collega la ciliegia al rametto, i quali formavano una “vi” rovesciata alle cui estremità spiccavano due ciliegie ben mature. Si creava un archetto che potevo appendermi all’orecchio, a mo’ di orecchino bizzarro. Era una trovata che mi aveva insegnato nonno, ma che in seguito ho scoperto essere nota a tutti i bambini. Alla fine della raccolta, quando mamma scendeva facendo scuotere vistosamente i rami, con la cesta colma di frutti e foglie, io di ciliegie ne avevo mangiate una quantità che a volte mi portava un po’ di mal di pancia, nonostante i “grandi” mi avessero ripetutamente detto di smettere, che mi sarebbe venuto appunto il mal di pancia. Ad afferrare la cesta, che l’attendeva con le braccia distese, era nonna, che provvedeva a separarle dalle foglie e a smistarle tra le famiglie, noi, loro, i cugini, i vicini di casa, le amiche e la signora che aveva una rivendita fuori dal cimitero e che le teneva da parte fiori e lumini, esattamente in quest’ordine.
Anna Arietti
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