lunedì 18 settembre 2017

Una vita trascorsa al rifugio Elisabetta


Avrà scalato il Monte Bianco almeno trenta volte, per non parlare delle diverse cime del massiccio e di tante altre vette. Ora è a riposo, si fa per dire. Perché le montagne le porta nel cuore ancora prima che nello sguardo e nei ricordi.

“Da almeno venticinque, trent’anni, non trovo più nessuno che vuole farsi accompagnare da me. Mi squadrano da capo a piedi e poi dicono che in montagna è meglio se ci vanno da soli”, scherza la guida alpina Edoardo Pennard, 83 anni, di Courmayeur, prima di iniziare il viaggio a ritroso nel tempo, un racconto fatto non soltanto di scalate.

“Sul Bianco salivo passando per il rifugio Gonella, sette ore per arrivare alla cima - dice -. Le ho fatte tutte le vette del gruppo. Ho scalato anche il Cervino diverse volte e le Torri del Sella. Appartengo alla terza generazione di guide alpine della mia famiglia. Prima di me il nonno Edoardo del 1871 e papà Albino del 1906. Ho preso il brevetto nel 1957, dopo aver completato il corso da portatore. Adesso si dice ‘aspirante guida’. In pratica per tre anni ho seguito una guida alpina con i suoi clienti. L’ho fatto per passione e anche perché la precedente esperienza da cameriere in un prestigioso hotel della Valle d’Aosta non aveva dato buoni frutti; forse non ero ‘tagliato’ per quel mestiere”.

Fuori, dove buttiamo un occhio attraverso il vetro, inizia a piovere e sul Bianco cala la nebbia. Anche il meteo si presta alla narrazione. La casa dove Edoardo ci accoglie, alla frazione Dolonne, è la medesima in cui è nato, riconvertita oggi a struttura turistica, hotel e ristorante. In una bacheca scorgiamo le pagelle scolastiche. “Quelle di mamma Anselmina sono aperte, fanno bella mostra di sé, perché lei era brava a scuola - spiega ammiccando -, le mie invece le ho piegate, sennò i nipoti fanno osservazioni sui voti”. 

“Erano gli inizi degli anni Cinquanta quando l’ingegner Giuseppe Soldini, in accordo con l’amministrazione comunale di Courmayeur, dove era poi sindaco mio nonno, aveva costruito il rifugio Elisabetta, in Val Veny, a quota 2.195 metri, in ricordo della moglie, morta in montagna. All’epoca era il più bel rifugio delle Alpi, dotato di acqua calda, cucina e docce, tutti servizi non scontati. Lassù ho trascorso la mia vita, gestendolo per 39 anni, anche con mia moglie Maria Teresa. Organizzavo esercitazioni su roccia e su ghiaccio, al mattino sui seracchi, oggi sciolti, e al pomeriggio sui nevai. Da quelle parti c’è il Lex Blanche, uno dei ghiacciai più belli. Proponevo le settimane alpinistiche. Le ascensioni in programma potevano essere alle Aiguille des Glaciers a quota 3.816 metri, de Trélatête a 3.930 e de l’Aigle a 3.518. Oppure c’erano le riposanti escursioni al laghetto del Miage o alle bianche lingue del ghiacciaio del Petit Mont Blanc”.

Sollevando un dito indica un quadretto appeso al muro. È la fotografia di Walter Bonatti, appena sotto un biglietto riporta gli auguri per il nuovo anno scritti di pugno dall’emerito alpinista. “Lui aveva soltanto tre anni più di me - si riprende sommesso -. Eravamo tanto amici, come fratelli. È stato guida alpina di Courmayeur per molti anni”.

Il viaggio prosegue e dalla hall raggiungiamo il piano inferiore. Un corridoio dove il mondo di Edoardo “sboccia” nell’allestimento di un piccolo museo in cui ha raccolto oggetti e attrezzi di vita agreste, quella vissuta dalla sua famiglia prima dello sviluppo turistico. “Mica potevo gettare via tutto. Non me la sono sentita”.

L’attenzione si sofferma sulla fotografia scattata in occasione della prima salita della cima Père Eternel, a 3.200 metri, avvenuta il 7 agosto 1928 (altre fonti riportano il 1927, ndr) che suo padre Albino e quattro amici, Arturo Ottoz, Osvaldo Ottoz e Laurent Grivel, avevano scalato con l’aiuto di un palo di legno. “Pensa, per l’uso di quella pertica, tra l’altro ancora utilizzabile oggi, non volevano dare a papà il titolo di guida alpina. A dirlo oggi fa sorridere, con tutta la tecnologia che si portano appresso”. Lo zaino è appeso lì di fianco e l’attrezzatura testimonia l’affermazione. “Avevo la piccozza, senza tanti fronzoli - spiega -. Le corde erano di canapa, non di nylon. I chiodi da roccia ce li faceva il fabbro del paese, non si compravano chissà dove. Oggi è tutto diverso, lo so”. Al muro ci sono pure i primi sci in legno utilizzati negli anni Quaranta e Cinquanta. “Quando si scendeva, sulla punta mettevamo una protezione di alluminio per impedire la rottura nell’impatto con la neve. Li ho indossati fino all’ultimo. Li ho appesi quando figli e nipoti si sono rivelati ben più veloci di me”.

Parecchi cimeli arrivano dalle escursioni; perlopiù sono oggetti lasciati dal passaggio della guerra e restituiti con lo scioglimento dei ghiacciai. Il ritrovamento più impressionante risale agli anni Settanta, un bombardiere americano, Super Fortezza Volante B17, di cui un’elica era incastonata nella roccia dove avrebbe sbattuto nel 1943. Qui il racconto a tratti si spegne come se Edoardo volesse risparmiare certi dettagli riguardo il recupero dei corpi. Gli occupanti del velivolo erano otto. Della scoperta se ne era parlato diffusamente e i famigliari delle vittime gli sono ancora oggi riconoscenti. 

Il sorriso sulle labbra di Edoardo torna alla vista delle “botticelle di legno”, dove la grappa veniva buona aggiungendo dei rametti di genepì fresco, sulla cui etichetta leggiamo “camomilla delle guide”. Sulle foto appese qua e là che lo ritraggono abbarbicato su una cresta invece taglia corto: “Sono immagini scattate soltanto per fare scena”.

A questo punto i ricordi che riaffiorano nella mente sono tanti, forse troppi. Dai cenni sugli alpinisti feriti percepiamo pena. La descrizione si fa di nuovo discreta. “Sul recupero dei morti, perché a 4.000 metri non c’erano feriti, è meglio non parlare. Venivano fatti a mano, lascio immaginare. Mi è successo anche di accompagnare un ragazzo che portava gli occhiali. Ad un certo punto si era messo a nevischiare e siamo stati costretti a tornare indietro, nel frattempo però la neve si era ghiacciata sulle sue lenti, non vedeva più nulla. Tornare al rifugio con un cieco al seguito non è stato facile. Questo per far capire com’è la montagna. Un’altra volta è accaduto che un uomo tutto agitato venisse a chiedere aiuto per la moglie che lamentava dolori. Era in dolce attesa. Dovevo agire subito. Trasportarla a valle. E non c’era il cellulare. In ospedale è poi nato un bel bambino - e qui Edoardo tace, abbassa lo sguardo, la commozione è ancora forte -. Sono rimasto in contatto con quella famiglia per anni e basterebbe rileggere le lettere per piangere un po”.

Edoardo è mai caduto in un crepaccio? 

“Sì - e sorride - ma erano profondi pochi metri e mi hanno sempre tirato fuori subito. Perché in montagna non si deve mai andare da soli. C’erano poi le serate in baita. A chi usava troppo le ginocchia facevo fare la penitenza, come asciugare i piatti o dare un bacio a qualcuno. L’ambiente di montagna era sano e divertente. Oggi, vedo in televisione, mi sembra diverso”.

Un consiglio che vale sempre? 

“In montagna, come al mare, serve tanta prudenza, perché se il meteo è determinante, anche la velocità va considerata. Oggi salgono sul Bianco in quattro ore, o sul Dente in trenta minuti. Noi impegnavamo anche tutta la giornata. Gustavamo la montagna, la bellezza di una margherita, facevamo la foto alla stella alpina e lo spuntino. Non mancava mai la preghiera alla Madonnina, magari anche più di una, e poi, appunto, si cenava tutti insieme”.

Anna Arietti
(testo e immagini)

scritto per www.cartabiancamedia.com 
il 16 settembre 2017 - Courmayeur







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1 commento:

  1. Sono stata al rifugio Elisabetta per una settimana alpinistica nei primi anni 60, ricordo benissimo Edoardo, il fratello che seguiva il rifugio e papà Albino.

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