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sabato 11 marzo 2017

Racconto: "Casimiro e la musica del guado ♪♫♪ "

di Enea Grosso


Se quel guerrier io fossi, se il mio sogno s’avverasse!"...
Caro Radamès! Eh,  tu sì che la sapevi lunga,  eri un uomo di valore, combattevi a destra e a manca, snobbavi la corte della bella faraona e via  a testa alta, di successo in successo. Va bé, poi non che tu abbia fatto una bella fine, … Ma chissà se poi è quella che tutti pensano? Chissà che tu e la tua Aida  non abbiate trovato un pertugio, un’uscita segreta e siate riusciti a scappare attraverso il deserto di oasi in oasi fino a trovare la vostra!  La fortuna aiuta gli audaci dall’animo integro come te. Capaci di dire di no all’apparente uovo d’oro oggi per avere la gallina domani, anzi per avere un intero pollaio. Cosa dici, caro Radames, che non posso lamentarmi? Che io ho già un pollaio? Vero, vero, ce l’ho da quando sono nato. Il  pollaio ridente tra il fiume e l’orto. Cosa desiderare di più? Ho le galline e uova fresche ogni mattino, e l’insalata, le rape, le fragole e i broccoli, a seconda della stagione. E allora cos’è questa inquietudine che sento? Devo dunque ammettere che tutto questo non mi basta?  Ma allora, cos’è la felicità, Radames?  Dimmelo tu che conosci  il mondo e  sei forte e audace. Nei miei 26  anni di vita, raramente mi sono allontanato  da questa manciata di case, se non per andare alla fiera delle mucche o al carnevale in città. E nemmeno lì, devo dire, erano tutti felici. Lo sembravano, lì per lì, ma quando mi avvicinavo non vedevo occhi davvero felici. Radamès, ti saluto. Magari la notte porterà consiglio ad entrambi, ed entrambi domani avremo qualcosa di nuovo da dirci”.

 Sorride, Casimiro, chiudendo il suo diario. Estrae a colpo sicuro da uno degli scaffali ordinati il fascio di musiche del Perosi  consumate dall’uso, giallognole come i tasti del grande organo in chiesa.
A qualche migliaio di chilometri di distanza un violino e una chitarra dormono sazi di note e di allegria.
Veglia su tutti la stessa magnifica luna.
 
 Casimiro la ritrova al suo risveglio – come al solito quando è ancora buio. Eccola lì, bianca e bella, sospesa sul fiume davanti al pollaio. “Chissà se le galline la vedono”, si chiede. “Eh, Gerti, , olà, olà! La vedi? Milla, alza il becco in su, su, su …”. Le interpellate si guardano distrattamente intorno. Scuotono le piume come per ripulirsi dai  residui del sonno. 

Exaudi, Domine, vocem meam … Mi fa diesis, sol, si la sol fa diesis, sol mi” canta Casimiro a mezza voce nel silenzio della grande chiesa, mentre  sotto le sue dita la melodia riecheggia tutt’intorno come infinite altre volte, da un tempo  lungo come un  sempre, così lungo che  le note sono impresse su tutte le pareti, sulle vetrate,  nella polvere della sacrestia.
“… qua clamavit ad te… sol la si sol do la. E’ un privilegio essere qui, a quest’ora dell’alba”, pensa Casimiro, posando lo sguardo sulle pesanti chiavi appoggiate a lato del leggio.

 
 Un rumore dal fondo penetra la bolla di musica, le mani si fermano. “Nessuno. Sarà stato un topo. Forse dovrei chiudere a chiave … ma chi c’è sveglio a quest’ora oltre a me, le galline e la luna?”. E ride tra sé mentre il  piede affonda  sul pedale del grand’organo senza pietà alcuna per gli acari ancora assonnati e i residui di candele,  che credevano di estinguersi  in un sobrio silenzio.

 
 No, no … sveglia! L’oro del mattino bussa alle vetrate della chiesa, alle finestre del villaggio, alle persiane lontane dietro cui sonnecchiano il violino e la chitarra, a due passi dal mercato dei fiori attorno alla Münsterplatz, la piazza della cattedrale.


 Nemmeno due ore più tardi, una coppia di suonatori ambulanti attraversa il  mare di petali delle bancarelle e si ferma accanto al portico al riparo dal sole. Sembrano una coppia ben poco assortita, quei due. L’uno alto e snello, biondo e algido come un dio nordico, con un non so che di elegante nonostante l’abbigliamento sportivo e la chitarra al collo; l’altro con l’aria buona e forte di un contadino, il naso bruciato dal sole, una camicia azzurra fresca di bucato,  le mani grandi e callose che sembrano diventare seta quando iniziano a dirigere l’archetto sulle corde del violino, tanto il suono è morbido e bello. La gente pian piano si ferma.  Sembra pietrificata a mezz’aria nel corso delle faccende quotidiane, con vasetti di miele e di primule premuti sul petto, le borse dei formaggi appoggiate sui ciottoli, perché cominciano a pesare, dopo un po’. Il suono del violino si alterna alla chitarra e alla voce dell’elfo dagli occhi chiari. Difficile resistere a quel timbro limpido e forte.  Pressoché impossibile svincolarsi dalla magia di quei  fili di note.
Fili che viaggiano lontano, fino al paesino di Fengilà e al pollaio davanti al fiume.. Altrimenti come spiegare la calma di Casimiro di fronte a quelle poche righe trovate sul tavolo in cucina.
Non era esattamente quello il tipo di novità cui auspicava per spezzare la quiete.

“Mio caro Casimiro,
voglio un mondo di bene a te, alla mamma e a me stesso: tienilo bene a mente! O sarà difficile abbracciarsi di nuovo. Tuo padre non è un folle, o meglio: dopo una vita trascorsa a metà tra sogno e follia, finalmente si è risvegliato. Prima o poi capirai. Ho fiducia in te. Bada alla mamma, senza trascurare te stesso. Osa e sii felice. Non preoccuparti per me! Ci rivedremo.
Con immenso affetto,
Papà”.

  Un fulmine a ciel sereno. Un sasso in uno stagno di quiete fatto di cascine  tra campi di grano e di riso, di domeniche scandite dalla messa al mattino e le partite alle bocce e di scala quaranta al pomeriggio.
L’indomani, dopo la coda dei vicini alla porta per consolare e sapere, dopo il trambusto dovuto  al dispiacere e all’incredulità, quasi tutto riprese esattamente come prima, mentre qualcosa era cambiato per sempre.
Ma non si trattava del cambiamento che parenti ed amici si sarebbero aspettati. Era cambiato qualcosa  tra le pieghe segrete del cuore.


 Nonostante la gravità e la straordinarietà del fatto – un anziano marito e padre di provincia che deliberatamente decide di sparire, e non preannunciando un suicidio o una fuga nel segno della disperazione, bensì lasciando un breve messaggio sibillino che in realtà diceva ben poco –  Mamma Maria non piombò in una nera disperazione. O meglio: si lamentò sì, della dura sorte,  nel ricevere le condoglianze di amiche e conoscenti, incredule e indignate nei confronti dell’Oreste - ‘ma cosa gli sarà preso?’, ‘ma no, povera Maria! Una cosa così proprio non te la meritavi!”, ‘sempre detto, io, che la vita è ingiusta e colpisce i più buoni!’. Però, seduta in ascolto di se stessa sul divano in cucina, stringendo tra le dita il biglietto di  Oreste sentiva che negli accadimenti di quei giorni c’era qualcosa di giusto, giusto come un’onda fredda che pulisce la spiaggia, toglie la sabbia e le alghe dai piedi, rimescola i detriti, scuote la mente con la sua sferzata inattesa.
“Non è vero che la vita è ingiusta”, le diceva Oreste, quando sedevano insieme sotto al glicine nel pollaio o accanto alla stufa in cucina. E lei che scuoteva la testa dicendo “no, non è vero!”, portando una decina di esempi, tra cui quello dello stesso Oreste, le cui dita nate per reggere un archetto erano state dedite al lavoro dei campi d’estate  e  ai  lavori  da muratore nelle giornate d’inverno. “Ma non è colpa del destino, Maria”, soleva ripeterle lui. E non lo diceva per consolarla: ne era convinto. Lei scuoteva la testa e continuavano così fino all’ora di andare a dormire.
Casimiro – che fin da piccolo aveva sentito quei discorsi – propendeva per la posizione della mamma, anche se rispettava profondamente il padre, uomo solido nel corpo e nella mente, dal cuore grande  e dall’innato talento artistico che gli aveva trasmesso. Quella convinzione ostinatamente stravagante secondo cui tutto quel che gli capitava era giusto doveva  certo provenire da quel suo originale  temperamento, che spiccava nel grigiore e nel conformismo tipici del paese.

La reazione di Casimiro all’accaduto era invero altrettanto strana quanto quella della madre.
Nel suo diario, ad esempio, quasi non ve n’era traccia, non in modo esplicito. La figura del padre emergeva  tra le righe, ma non c’era alcun cenno alla sua sparizione né al suo strano biglietto.

 “E dal mio labbro uscì l’empia parola … vincitor del padre mio!”
Oh, è questo che mi suggerisci,Radamès!  Ma confessa, non sono parole tue, tu non sei così sfrontato. Solo una donna può esserlo. Te le ha suggerite la tua bella Aida per me, queste parole, non è vero? Sfrontata ma acuta, la giovane. Il padre mio. Quanto gli voglio bene, e quanto nella parte più segreta di me, mi sento schiacciato dalla sua sincera serenità e dalla sua determinazione.
Con lui è sparito il suo violino muto da tempo.  Ho sempre avuto la sensazione che lui fosse in questo paese per caso o per una strana scelta di cui però era convinto … Io invece sono qui perché ci sono nato e non ho mai avuto il coraggio di seguire l’impulso della mia curiosità. Perché tu lo sai, Radamès, che da sempre mi domando cosa ci sia dietro a quella grande casa mezza diroccata, con una torretta e una minuscola terrazza proprio in cima, perché è si annerita e fatiscente, ma traspare dai suoi m uri un non so ché di passato elegante, come se la casa preferisse tenere nascosto il suo originario splendore vergognandosi per averlo perduto. E sono certo d’aver intravisto una figura svelta e lieve uscire dalla porta principale, la sera, per dirigersi verso la piazza. E una sera di vento sono certo, certo d’aver udito un canto uscire dalla grande finestra dalle persiane verdi che da’ proprio sul fiume.  Lo ricordo bene perché era così caldo, nonostante il vento, che sedevo al pianoforte coi piedi a bagno in una tinozza d’acqua gelida e mi compiacevo del freddo dei pedali, quando li premevo senza calze, coi piedi bagnati..”.

 Solo queste righe scrisse Casimiro il giorno dopo la scomparsa del padre; ed avvertiva un certo senso di colpa nel a confessare a se stesso – e a Radamès – che l’inatteso, tragico evento gli aveva acceso qualcosa nel cuore. Scandaloso da dire apertamente.
Non che fosse felice di essersi liberato del genitore o qualcosa del genere,no! Ma così lo avrebbe interpretato la gente del paese – sbrigativa e pettegola – se solo avesse provato a spiegare con toni sinceri. E allora scelse il silenzio su tutti i fronti: con i vicini,, con il coro della chiesa che continuava a dirigere come aveva sempre fatto fin da ragazzino, con Don Vanni e con la madre.

 Se invece le avesse confidato il suo cruccio,  lei lo avrebbe capito più di tutti, perché, senza saperlo, stava provando analoghe contrastanti emozioni.
Casimiro non se ne accorse subito, dato che anche Maria offriva al pubblico delle vicine quello che volevano:  la parte  della massaia annichilita dalla sorte e con una visione del futuro che non andava al di là dell’appezzamento d’insalata.
Nel silenzio di una delle notti senza sonno, Maria scivolò in soffitta a cercare un vecchio libro sull’arte del  disegno. Lo aveva visto tanti anni prima nella biblioteca di Villa  Castellone, dove si recava a fare le pulizie da ragazza.  A Carolina non era sfuggito come  si  soffermasse a sfogliarlo con occhi avidi; ed essendo una donna intelligente glielo aveva fatto recapitare a casa dalla cameriera con una matita da disegno ed una scatola di colori. Complice la Contessa, Maria aveva cominciato a disegnare di nascosto, fermandosi alla villa dopo l’orario di lavoro con la scusa di insegnare alla contessa come riconoscere le erbe dei prati. Ma dopo un anno dovette abbandonare l’incarico per due motivi principali: la partenza improvvisa dell’allora giovane contessa verso il Sudamerica – per gestire  importanti affari di famiglia laggiù, dove Carolina aveva ereditato la grossa azienda dello zio paterno morto scapolo e senza figli; e dall’altra il suo matrimonio con la nascita di Casimiro dopo un anno.
 All’epoca del matrimonio lei e Oreste erano fidanzati da due anni. 
Solo Maria sapeva che sei mesi prima della sua sparizione, il marito aveva ricevuto una lettera dal   suo caro e vecchio amico Heinrich  – bravissimo  musicista  originario di Rüdesheim, sulle rive del Reno. Si erano conosciuti proprio lì in paese. Heinrich vi era arrivato con una compagnia di artisti di strada. Il gruppo si era trattenuto oltre il previsto – ben otto giorni -  perché metà della compagnia era annientata da una terribile influenza. In quel paesino trovarono calda accoglienza e cure. Fu in quell’occasione che Oreste fece amicizia con Heinrich e lo accolse in casa.  Fu un sabato sera, quando erano tutti riuniti (erano presenti anche gli anziani genitori di Oreste e  Maria) che Heinrich udì il suo ospite suonare il violino. Rimase senza parole.

 Heinrich, violinista lui stesso,  spiegò che in capo ad un anno avrebbe smesso di esibirsi in strada perché aveva firmato un contratto con il   teatro di  Schussen-  Lied.  Avendo sentito l’eccezionale talento di Oreste, gli propose di andare con lui, perché di sicuro lo avrebbero accolto e assunto con entusiasmo.
Oreste sentì un tuffo al cuore. Immaginò il teatro dalla sala bianca e azzurra con gli stucchi dorati e la balconata di legno che correva lungo le pareti affrescate

Ne parlò a Maria con entusiasmo. Avrebbero affrettato le nozze, sarebbero partiti insieme.
Ma Maria era timorosa del mondo. Disse che no, non se la sentiva.  Come scusa  per nascondere la sua paura disse che al momento i suoi genitori erano in salute, certo; ma era suo dovere restare al paese per vegliare sulla loro  vecchiaia, dato che le sue sorelle erano più anziane ed avevano già qualche acciacco e  vivevano ben due paesi al di là del guado. E cosa avrebbe fatto lei, in un paese straniero, non parlando la lingua locale, senza conoscere nessuno,  lei che attraversava il fiume solo per andare a Villa Castellone  per poi  tornare a casa?
A Oreste  dispiaceva vederla così agitata e  le voleva troppo bene per rinunciare a lei. Se avesse saputo delle lezioni di disegno impartitele dalla Contessa Carolina, allora sì, avrebbe osato ritornare sull’argomento facendo leva sul richiamo dell’arte,  che in una cittadina vivace di cultura Maria avrebbe potuto coltivare meglio che non nel villaggio. Ma la giovane donna non ne aveva fatto parola ad anima viva. Le avevano insegnato a lavorare, ad essere devota e paziente e a prepararsi ad essere una brava moglie e massaia. Quel ghiribizzo del disegno … chissà cosa le era saltato in mente! Doveva essersi montata la testa entrando in quella Villa. Erano lussi da nobildonne, quelli, per gente dalle mani delicate! Così le avrebbe detto sua madre, se avesse confessato di quelle  lezioni segrete. Già aveva dovuto far finta di cadere dalle nuvole quando aveva ricevuto il libro e le matite direttamente a casa.
Oreste era un uomo concreto e  incline alla serenità. Considerò la proposta di Heinrich come qualcosa che si è udito in un sogno e continuò la vita di sempre, senza rimpianti.  
Nessuno  seppe mai di quella proposta, tranne Maria e  gli anziani genitori di lui.

 A dire il vero un giorno in cui era in vena di ricordi  mentre spolverava il violino, Maria  aveva accennato  al piccolo Casimiro  che il padre avrebbe potuto esibirsi ogni sera in un bel teatro bianco, azzurro e oro, ma la sorte lo aveva destinato a vivere lì a Fengilà. Quando il piccolo chiese curioso al padre di raccontargli di più, questi si limitò a dirgli sorridendo che ognuno sceglie il proprio destino attimo per attimo. E che in quell’attimo c’era un tramonto rosa e dorato e l’unica cosa sensata da fare era sedersi accanto al fiume e guardarlo fino all’ultima goccia di luce.
Casimiro colse nello sguardo della madre  un’opinione diversa, la condivise in cuor suo e ritornò a giocare.  Dopo una settimana si scordò della conversazione e   più nessuno toccò ancora l’argomento.

 Chissà perché quella notte quell’episodio lontano gli tornò  in mente nitido.
Ricordò anche che un paio di volte la madre gli aveva raccontato di una biblioteca ampia e luminosa e di una bellissima contessa –  più vecchia  di lei di sei o sette anni – che le voleva bene, nonostante la differenza di rango, ma che purtroppo oramai viveva in un paese al di là dell’oceano.
La sparizione del padre  pareva  un colpo di vento che stava spazzando via la polvere da certi sigilli del passato e stava al tempo stesso aprendo  brecce nelle pareti attorno al presente; brecce attraverso le quali s’intravedevano luci di un futuro diverso da quello sempre  immaginato.
Il tutto generava una certa confusione.
Quella notte Casimiro uscì a fare due passi, e poi si sedette sulla panchina nel pollaio davanti al fiume. In lontananza gli sembrò di vedere per un attimo una  luce nella torretta di quella grande casa lontana, sull’altra riva. Rimase in silenzio cercando di non fare rumore nemmeno col proprio respiro. Si aspettava di udire un suono, come era accaduto tempo prima, ma non udì nulla.
Si girò per rientrare in casa e vide per un attimo una luce nella soffitta. Possibile? Sto impazzendo, Vedo luci ovunque?  I fantasmi? Papà che è tornato?  Forse  era solo un riflesso …  Salì  di corsa i tre piani di   scale  senza trovare nulla, tranne silenzio, buio e qualche ragnatela.
Si rassegnò ad andare a dormire.
Si stupì, l’indomani, d’incontrare la madre mentre rientrava alle otto di mattina, con l’aria accaldata, e   una grande borsa sotto al braccio. Aveva un modo di fare furtivo, come volesse nasconderla. Nascondeva anche le mani avvolgendole nel grembiule.
Non le chiese nulla. Era stanco e confuso. Aveva dormito poco e male.

 Maria aveva ripreso ad esercitarsi nel disegno fino a tarda notte.
E poco prima che sorgesse l’alba usciva in bicicletta e pedalava il più possibile lontano dal paese, finché non trovava  un posto tranquillo tra le risaie  e si metteva a dipingere  le montagne che vi si specchiavano nella luce del mattino.
Un giorno Casimiro la seguì.  Si commosse, quando la vide da lontano. Non avrebbe mai immaginato. Quando Maria rientrò in casa passando dal retro, suo figlio le disse quanto aveva visto  e di quanto fosse felice per lei.
Con l’improvviso mutamento della  situazione familiare, nel silenzio che ne era seguito, era emersa quella parte di se stessa che la donna  non aveva mai voluto o saputo ascoltare.
Casimiro le costruì  una graziosa baracca nei pressi dei loro campi di grano, in modo che potesse dipingere all’aperto anche sotto la pioggia, se lo desiderava.
Qualche volta la accompagnava nelle sue uscite mattutine, prima di recarsi al lavoro in municipio a mezza giornata, dove svolgeva varie mansioni a seconda delle necessità. Il sabato mattina invece restava con lei più a lungo.  Si sedeva lì accanto su di una coperta, mentre Maria dipingeva e  gli narrava – ora  con dovizia di dettagli -  delle sue giornate dalla Contessa, di Heinrich, del teatro azzurro e d’oro e di tutto quello che è giusto  che un figlio sappia del passato in cui affondano le sue stesse radici.
Gli raccontò anche che sei mesi prima era arrivata una lettera dalla Germania. Lei non l’aveva letta, ma aveva letto negli occhi di Oreste una scintilla nuova. Non gli aveva chiesto nulla.  Lo aveva soltanto guardato sol sorriso più amorevole ed incoraggiante che aveva trovato nel suo cuore.

 In paese iniziarono a girare strane voci.
Qualcuno diceva che l’Oreste doveva essere  un pazzo o un suicida – e la seconda ipotesi era considerata la più onorevole.  Se lo avessero ritrovato morto sotto ad un ponte almeno si sarebbe data al corpo cristiana sepoltura e la vicenda avrebbe avuto un finale dignitoso. Nel caso fosse un pazzo e fosse fuggito chissà dove e chissà perché, che vergogna per i suoi parenti! Ma -  qualcuno iniziava a mormorare -  forse il germe della pazzia stava intaccando tutta la famiglia.
Maria ormai si recava a dipingere la luce delle risaie senza più nascondersi.
La incontravano spesso  i contadini che si recavano al  lavoro nei campi.. E si domandavano come facesse a stare in piedi, dato che si mormorava che disegnasse anche di notte. Al ritorno si recava a fare le pulizie   in chiesa e in municipio come di consueto. Nessuno poteva immaginare che non era mai stata così vitale e carica d’energia e di coraggio.
Anche Casimiro non era più quello di una volta. Era puntuale e diligente al lavoro, non aveva mai smesso di  suonare alle funzioni domenicali, ma qualcosa in lui era cambiato. Era piuttosto sfuggente.
La gente, sempre svelta a giudicare per ignoranza e per noia,  commentava con  toni sempre più aspri. Ah! Si vede che la Maria ha un amante. Ecco perché non dorme di notte. E qualcuno si prese persino la briga di tenere d’occhio la loro casa, per cogliere movimenti strani, ma invano. Vedevano solo Casimiro che rientrava col gatto dai suoi due passi notturni, per poi sedersi una mezz’ora allo scrittoio e infine spegnere la luce della sua stanza che dava sulla strada principale.

Musicisti a Freiburg - Poster
 A qualche migliaia di chilometri di distanza Oreste e il giovane Ivo, figlio di Heinrich -   per anni primo violino al teatro di Schussen-Lied  e spesso in viaggio in quartetto d’archi  in Germania e in tutta Europa  – suonavano l’uno accanto all’altro sotto al sole di Freiburg in Breisgrau.
Heinrich non aveva mai dimenticato Oreste e il suo tocco di seta.
Suo figlio Ivo si era precocemente  diplomato in violino e suonava la chitarra per diletto, oltre ad avere un timbro di voce eccellente. 
Heinrich voleva che fosse la vicinanza di Oreste a trasmettergli e ad amplificare in lui quello che   nessun conservatorio e nessuna tecnica potevano insegnare.
Voleva che prima di iniziare una qualunque carriera imparasse a conoscere se stesso come artista e come  uomo attraverso il contatto diretto con la gente. Il teatro di strada era stata una grande scuola per lui.
Nel ricevere la sua lettera, Oreste aveva sentito lo stesso tuffo al cuore di tanti anni prima.
Amava Maria profondamente, ma l’età gli aveva portato saggezza.
Aveva capito che seguire la strada dei propri sogni  apre inevitabilmente la strada ai sogni di altre persone, come un’onda buona, come un virus che porta vigore invece che malattia.
Ci aveva messo tanti anni per capirlo ed ora doveva decidere:  poteva  passare a suo figlio Casimiro l’eredità della sua obbedienza alle regole imposte da una società piccina o quella del coraggio di scavalcarle per trovare la strada dell’anima.
Oreste sapeva benissimo di rischiare grosso.
Avrebbe potuto perder in un solo colpo non solo la reputazione del paese – che era la cosa meno importante – bensì anche l’affetto della  sua famiglia. Se loro non avessero capito, probabilmente non li avrebbe rivisti mai più.

 In Casimiro non scorreva di certo il sangue dei saltimbanchi che dormono per strada e ogni notte sotto ad un cielo diverso. La sua era senza dubbio un’indole d’artista, un po’ mortificata dall’abitudine – che tende a diventare col tempo una forma di consolidata pigrizia – e dal muro di nebbia  umida che da novembre a gennaio sembrava inghiottire ogni cosa, incluse le anime di chi viveva lì.. Ma quello era uno bel  giorno d’estate.

  Si avviò verso il guado del fiume respirando a fondo l’aria piena di sole come se volesse farne scorta per i mesi a venire. Non c’era un ponte fra le due parti del paese, o meglio: l’unico ponte era a venti chilometri più a ovest, nei pressi della città, mentre lì esisteva solo quel guado, pericoloso con la nebbia, impraticabile con le piogge. Nella bella stagione diventava quasi un posto grazioso, con le minuscole spiagge di sassi bianchi nascoste sotto alle fronde sulle due rive.
“Chissà perché la gente non ci viene”, pensò Casimiro, come se le vedesse per la prima volta. “Chissà perché io non ci sono mai venuto”.
Ormai sgravato da oscuri sensi di colpa ed inutili retaggi del passato, quel giorno – e in quelli a venire – avrebbe trovato bello qualsiasi paesaggio. Che fosse d’improvviso diventato un poeta? Ridendo fra sé al pensiero, attraversò il guado di corsa.
Quando era passato di  lì l’ultima volta? Un domenica d’inverno tutto solo e poi un’altra volta anni e anni addietro quand’era ancora un bambino. Cercò di ricordare perché. “Ah già, già! Per un mio improvviso mal di pancia avevo perso la messa del mattino e la mamma mi aveva portato alla funzione pomeridiana alla chiesa di qui. Ecco perché”.
Don Vanni era l’unico ad attraversare il guado più spesso del postino Amilcare e del medico Guido (tranne nel periodo delle influenze). Per mantenere il quieto vivere trotterellava di continuo da una chiesa all’altra celebrando tutto il celebrabile secondo la liturgia romana: dal  vespro al mattutino con un tale numero di messe da fare invidia al Vaticano. Bisogna dire che grazie a questo andirivieni a piedi e in bicicletta Don Vanni era in eccellente forma fisica, nonostante i suoi 75 anni. Usava la sua vecchia auto di terza mano solo quando era costretto dalle piogge a fare il lungo giro dal ponte.
“Bella giornata, neh, Casimiro?” gli gridò il parroco pedalando veloce come un ragazzino sulla sua bicicletta nera.
“Don, piano, piano eh!”, urlò il giovane ridendo e arrossendo fra sé dinanzi a quell’invidiabile energia.  “Ma come ho vissuto in tutti questi anni …”, si disse. “Dai, inutile rimuginare. Andiamo, Casimiro, andiamo, non perderti”, si ordinò. E riprese  il cammino.

 
 Dopo circa quaranta minuti giunse ai piedi dell’unica collina su cui sorgevano da una parte un antico monastero cluniacense abbandonato a se stesso e dall’altra  la villa in gran parte nascosta dalla vegetazione. Solo la torretta e il balcone centrale erano ben visibili anche da lontano. 

Il giovane si fermò intimidito davanti all’enorme cancello fiancheggiato da due alte colonne. Mentre se ne stava a naso in su, come dal nulla sbucò una donna dalla pelle molto abbronzata che aveva tutta l’aria di una persona di servizio.
“Buongiorno! Desidera qualcosa?” gli chiese in modo neutro con accento straniero.
“Bella domanda!”, pensò Casimiro. “Non so nemmeno io esattamente perché sono venuto fino qui…”. E  trovando la cosa buffa, gli venne da ridere, e si scusò per questo. Bastò quell’accenno di risata spontanea a rompere il ghiaccio. Anche la donna sorrise e Casimiro le spiegò semplicemente di come avesse visto una luce sulla torretta e sentito una musica che sembrava provenire proprio da lì. E che sua mamma aveva lavorato lì prima che la Contessa Carolina partisse per il Sudamerica.
La cameriera Isaura annuì sorridendo.  Spiegò che sì, la Contessa Carolina Fecia von Breisgrau era tornata in Europa e si era fermata nella Villa tre giorni con le due figlie, Marice e Inti Maria, poi era partita per la Bresgovia, dove sarebbe rimasta fino alla fine dell’estate, ospite dei suoi cugini tedeschi. Nel frattempo la villa e il giardino sarebbero stati completamente ristrutturati. A seguire i lavori erano rimasti Isaura e il marito Felipe, da anni al servizio dei Fecia von Breigrau nelle loro  due residenze in Paraguay e in Ecuador.
“Se cerchi lavoro vieni a parlare domani con mio marito Felipe”.
Casimiro non cercava lavoro, ma colse la palla al balzo, perché pensò che varcare il cancello di quel giardino sarebbe stato come varcare l’oceano per accedere ad un mondo nuovo.
Per tutta l’estate si recò a lavorare alla villa tre pomeriggi alla settimana.
La sua soddisfazione più grande fu accordare e restaurare l’elegante  Schimmel nero  gran coda che troneggiava nel mezzo di un salone luminoso. Ad accordatura ultimata, Casimiro provò lo strumento.  Isaura, notando che ad imbianchini, giardinieri e muratori piaceva ascoltarlo, lo incaricò di lavorare come pianista. 
Casimiro suonava un po’ di tutto: da Mozart a Chopin, da Bach a Baldassarre Galuppi, oltre ad un gran numero di canzoni popolari. Si era persino recato in città ad ordinare spartiti di musiche sudamericane.

 Un pomeriggio si mise a suonare una musica completamente diversa dal solito: una serie di melodie di un’elegante semplicità che sembrava  vibrassero all’unisono col cuore  di tutte le cose.
Isaura gli chiese di che musica si trattasse. Egli arrossendo un po’ le disse che l’aveva composta lui una domenica di novembre quando la baraggia era tutta ricoperta di galaverna e brillava di bianco e d’argento e il paesaggio era  da fiaba! Era così irreale che se fosse passata la carrozza della Regina delle Nevi non si sarebbe stupito affatto.


 La Contessa Carolina adorava il mercato dei fiori attorno alla cattedrale.  In particolare le piacevano tutte le sfumature di giallo che al sole diventavano un tappeto d’oro, almeno ai suoi occhi.
La Contessa era una brava pittrice.  Aveva preso l’abitudine di andare a dipingere sotto al porticato della Münsterplatz almeno un paio di volte alla settimana, quando dall’altro lato prendevano posizione due musicisti ambulanti di eccezionale bravura.


Un mattino, prima che i due iniziassero a suonare e si creasse la solita fitta folla attorno, Carolina si avvicinò a complimentarsi e disse che li avrebbe avuti volentieri come ospiti nella sua residenza italiana, alla fine della stagione estiva. Aveva grandi progetti. Voleva inaugurare una stagione di concerti, e una scuola di musica accanto ad una di pittura e disegno. C’erano tante stanze nella grande casa della sua infanzia. Ridandole vita avrebbe dato nuova linfa al paese oltre che alla casa, che avrebbe potuto lasciare in buone mani durante i suoi periodi di permanenza in Sudamerica.
La proposta e il progetto furono ben accolti.
L’anziano violinista infilò il biglietto da visita di Carolina in un posto sicuro per non perderlo e lo ritrovò  solo due settimane dopo, come accade con i posti sicuri cui si affidano cose da non perdere assolutamente. Quando lo lesse non riuscì a contenere la gioia e pianse e rise come non aveva fatto mai.
Il "Castellone"
 E’ tiepida la notte, a dispetto della stagione. Di solito l’aria è più fresca alla fine di settembre.
La serata scintilla per le stelle e  le innumerevoli candele disseminate in giardino, lungo l’ampio scalone, in ogni sala della villa rimessa a nuovo. Le note attraversano il fiume e raggiungono generosamente tutte le finestre aperte.  Bussano  anche ai vetri di chi ancora si ostina a chiamare saggezza l’abitudine e la paura e a bollare come folle la sana leggerezza  del cuore.
Il pubblico rimane in silenzio fino alla fine del concerto.
Don Vanni è seduto in prima fila accanto ad Heinrich e sua moglie Ute, e piange di gioia per tutto il tempo. Mai si sarebbe aspettato un simile regalo per il cuo compleanno: il suono di seta di Oreste, la chitarra  di Ivo, l’arpa di Inti Maria, la voce di Marice, Casimiro al pianoforte e la sua meravigliosa musica.
Alle pareti, nei quadri e nei disegni della Contessa e di Maria, spiccano il verde delle risaie, il guado d’argento, l’oro del mercato dei fiori.
C’è chi per imboccare la propria strada deve attraversare il mondo; e chi, con grande sforzo, deve decidersi ad attraversare il guado che pare un oceano davanti alla porta di casa. “Certo è che la cosiddetta felicità è molto più a portata di mano di quanto ci abituino a credere”, rifletté Casimiro, ormai certo che Aida e  Radamès avessero trovato un pertugio attraverso le pietre della piramide, liberi in un’oasi di verde e di luce a dispetto del mondo che li avrebbe voluti morti insieme ai loro sogni.



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Un omaggio al Biellese (andando anche un po' oltre i suoi confini),  ai suoi paesaggi r ai suoi musicisti.


Testo e immagini di Enea Grosso