giovedì 1 giugno 2017

Il ricetto di Candelo (1)


A mandare in visibilio non sono soltanto certi panorami sospirati chissà dove. A volte basta incontrare una guida turistica innamorata del proprio mestiere, e del territorio, che te lo sa raccontare, per ritrovarti con gli occhi spalancati. Perché è quando rimetti in discussione l’ovvio, tutto quello che dai per scontato, che la giornata si fa interessante.

L’appuntamento è in piazza Castello a Candelo. La stretta di mano della mia guida, Maria Laura Delpiano, è energica e calorosa. La visita inizia sgambettando velocemente verso una delle torri che cingono la mura perimetrali del Ricetto, il nucleo fortificato, un unicum nel suo genere in ambito europeo, seppure qualche Biellese lo definisca “un ammasso di sassi”.

“Le duecento casette, cellule, costruite al suo interno dai contadini verosimilmente agli inizi del Trecento, servivano per proteggere i prodotti della terra, dalle granaglie al vino, e se c’era necessità anche loro stessi - mi spiega macinando gradini -. Oggi sono tavernette private, atelier espositivi di artisti e artigiani, sale incontri e ristoranti. Oppure sono musei da visitare accompagnati, perché non si possono lasciare incustoditi e perché certi luoghi vanno proprio raccontati”. Le ultime parole arrivano raggiungendo la cima. La forma circolare della torre offre una visuale che ricorda la valenza del saper cambiare prospettiva per apprezzare meglio, o di nuovo, quello che l’occhio, o la vita, ci fa credere scontato. La guida mi lascia osservare, poi segnala finezze che altrimenti sfuggirebbero, come il camminamento sopraelevato, la “via di lizza”, o lo spazio presente fra una casetta e l’altra, necessario per arieggiare ed evitare l’eventuale propagarsi di incendi, ma anche a suo tempo utilizzato per espellere le acque reflue, le quali percorrevano bellamente le rue a cielo aperto sino a confluire fuori dalle mura. “Sì, però, da allora di acqua ne è passata parecchia - mi rassicura Maria Laura guardandomi da sopra gli occhiali -”. Le chiedo poi cosa intenda per “luoghi che vanno raccontati”, di poc’anzi: “Certe volte - mi dice - per comprendere quello che osservi, è indispensabile che qualcuno te lo spieghi, anche un po’ per innamorartene”. Credo si riferisca a quella sorta di meraviglia che provano i bambini quando ascoltano le favole. “Comunque, all’ufficio accoglienza turistica, tutti i giorni dalle 9 alle 19 si possono chiedere guide in diverse lingue, per visite singole o a gruppi. E poi c’è l’audio-guida”. E, to’, davanti a me si materializzano due turisti intenti a mettersi le auricolari, già anche provvisti di mappa.

L’itinerario prosegue con la visita alla cellula del contadino, una rappresentazione con oggetti d’epoca. Nel tempo però i Candelesi si sono fatti prendere la mano e fra la “mugna” appesa al muro, la struttura che solleva le lenzuola per scaldare il letto, e il tavolo apparecchiato, l’occhio cade su un affastellamento di cimeli, guardando i quali viene da stringersi nelle spalle, ma la guida non demorde: “Una chicca è la ‘banca curidora’, che non è uno strumento di tortura, ma una sorta di girello per bambini. Il bello è che i turisti riconoscono l’oggetto, ma lo citano con un nome dialettale diverso”. La cellula dedicata alla vinificazione, altra lavorazione che tratteggia le caratteristiche del territorio, è distante pochi portoni.

La chiave nella toppa stenta a girare, Maria Laura si fa rosea per lo sforzo. Sbloccato anche l’enorme chiavistello, spuntano gli attrezzi. “Nel ‘600-‘700 esistevano in paese due torchi comunitari enormi, uno dei quali visibile in un ristorante, lungo undici metri e pesante sei tonnellate. Il pezzo forte però è il ‘puàsc’, l’antenato del ‘mocio’. Niente a che fare con i pavimenti - sottolinea ammiccando -. Si utilizzava per pulire l’interno delle botti”. Il motivo del rimando allo spazzolone è il ciuffo di brattee di pannocchia posizionato ad una estremità del manico. Lì vicino, meno impolverate, ci sono bottiglie di “Sinfonia”, il vino “prodotto con vitigni autoctoni rari a rischio estinzione, un progetto voluto dal comune di Candelo, sostenuto dalla regione Piemonte e sviluppato dagli studenti dell’Istituto agrario di Biella”. La spiegazione genera spunti per approfondimenti; penso al turismo slow che li può cogliere.

Con una passeggiata di trenta minuti, seguendo le vie Castellengo e Isangarda, arriviamo all’aula verde, ai piedi dell’altopiano Bellavista, che se necessario si può raggiungere anche in auto ed è tappa di un circuito per mountain bike. L’area raccoglie essenze e arbusti caratteristici della Riserva naturale orientata delle Baragge ed è sito di interesse comunitario. Ancora un universo da scoprire che sa intrattenermi, come il bruco della rara farfalla Maculinea alcon dalle abitudini bizzarre: cerca casa dalle formiche e loro, tonte o savie, lo accolgono e lo nutrono. Affascina in ugual il pioppo tremulo, alle cui foglie basta un refolo di vento per agitarsi. L’erba molinia invece, con il brugo e la farnia, crea l’atmosfera tipica della savana. Anelando alla bellezza penso all’estate e all’autunno quando dominano le tonalità dorate, all’inverno quando la magia scende con la galaverna e alla primavera, in cui prevale il verde brillante. Interrompe la poesia una bottiglia di plastica abbandonata in un cespuglio. “L’educazione scarseggia, come vedi, ma noi guide spieghiamo che le uniche cose che possono rimanere a terra dopo la visita sono soltanto le orme dei nostri piedi. Il bello di Candelo e della Baraggia è che in breve offrono importanti ‘bagni’ di natura e di cultura. Molti turisti spesso se ne vanno esclamando ‘apperò, non credevo’. E poi tornano”.

Il percorso si conclude di nuovo in piazza Castello, sorpresa di tanto coinvolgimento. Perché vestire i panni del turista in casa propria, sul territorio in cui vivi, non è istintivo, ma è sicuramente stimolante. Osservi con occhi più attenti quel visto mille volte, che forse non avevi mai guardato bene neppure una.


Anna Arietti
(testo e immagini)














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